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Don DeLillo: il cane di Hitler, la birra e il jazz

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Forse non ho ancora fatto del tutto pace con il canone del postrmoderno. Rumore bianco (1985) è un romanzo con tanti spunti interessanti, forse anche troppi. L’accumulazione di materiali, parole, sensazioni, dialoghi affatica… L’arguzia dell’autore non è in dubbio, ma il fatto che ci venga fatta così tanto pesare durante la lettura non rende questo romanzo scorrevole. Difficile credere alla storia, credere ai personaggi e non sentirli sempre come figure di carta che parlano con la voce dello scrittore, con ogni singola frase che porta come sottotesto: ecco guardate come sono intelligente, vi spiego l’America con ironia e iperboli. Quasi 400 pagine di un Don DeLillo che si bulla della sua arguzia sono quantomeno…indigeste.

Ecco un bell’aforisma, di quelli che si annotano nei taccuini per farne uso al momento giusto.

Il mondo è pieno di significati abbandonati.

Il problema di DeLillo è che questa frase è meravigliosa ma passa le altre quasi 400 pagine a decifrare un bel po’ di questi significati. Forse il suo editor avrebbe dovuto prendere coraggio e forbici e tagliarli un 200 pagine.

Veniamo al pezzo forte.

Jack Gladney è professore di studi hitleriani in un piccolo campus della provincia americana. Da tempo si sta preparando per un grande convegno internazionali con i maggiori esperti di Hitler e teme che si scopra la sua poca – praticamente nulla- dimestichezza con il tedesco, una colpa imperdonabile per chi dovrebbe sapere tutto di Germania e nazismo.

Diedi loro il benvenuto nella cappella nuova di zecca. Parlai in tedesco, dai miei appunti, per cinque minuti. Soprattutto della madre, del fratello e del cane di Hitler. Un cane di nome Wolf. Parola che in tedesco e in inglese è uguale. Come del resto la maggior parte di quelle che usai nel mio discorso di saluto, più o meno. Avevo passato intere giornate compilandone degli elenchi. Le mie osservazioni furono di necessità slegate e strane. Feci molti riferimenti a Wolf, molti di più a madre e fratello, alcuni a scarpe e calze, alcuni altri a jazz, birra e baseball. E naturalmente a Hitler. Nome che pronunciai spesso, sperando che dominasse la malcelata struttura delle mie frasi.

Lo showdown del professore hitleriano è davvero divertente, ma di nuovo, arriva a pagina 326, dopo essersi annunciato fin dal primo capitolo…

E parlando di musica: il parallelo con gli studi su Elvis Presley di un collega docente che chiede a Gladney il proprio appoggio come autorità accademica avrebbe potuto portare a qualcosa di più ma la carne che mette al fuoco DeLillo nutrirebbe un esercito di personaggi da romanzo, basterebbe per due Guerra e pace. A controllare la cottura di tutto quel materiale qualcosa viene dimenticato e si brucia. Il jazz usato a sproposito insieme a birra e baseball fa molto postmoderno e quindi ce lo mettiamo. Di nuovo è fastidioso leggere un romanzo e sentire l’autore che ci alita sul collo tutte le sue idee. Si sentono gli ingranaggi che scricchiolano, Don!

Comunque proprio alle ultime righe del finale DeLillo consuma l’ultima tirata elegiaca e apocalittica contro il consumismo capitalista americano.

Ed è li che aspettiamo, tutti insieme, a dispetto delle differenze di età, i cartelli stracarichi di merci colorate. Una fila in movimento lento, gratificante, che ci dà il tempo di dare un’occhiata ai tabloid nelle rastrelliere. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno, che non sia cibo o amore, lo troviamo nelle rastrelliere dei tabloid. Storie di fatti soprannaturali ed extraterrestri. Vitamine miracolose, le cure per il cancro, i rimedi per l’obesità. Il culto delle star e dei morti.

Peccato che i tabloid nell’era dei social stiano sparendo. Come la mettiamo adesso?

Don DeLillo, Rumore bianco, Einaudi, 1999


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